Mio padre e la “partita del secolo”
La sera di una calda estate, nell’afa soffocante della Bassa Romagna che si mitiga solo un po’, dopo il tramonto, ho visto in Tv un programma sportivo dedicato alla Nazionale di calcio degli anni settanta, ma in particolare alla “partita del secolo”, per dirla come Nando Dalla Chiesa: Italia - Germania 4 a 3.
Nel 1970 avevo 17 anni: frequentavo la Scuola Superiore, mi appassionai a quel grande fermento - pur con tutti i limiti propri di ogni umana avventura - che è stato il Movimento Studentesco. Volevamo mettere in discussione tutto: scuola, genitori, famiglia, amicizie.
A volte il desiderio di libertà, di dare significato, era sopraffatto da comportamenti arroganti, mistificatori di quell’anelito di giustizia che sentivamo dentro.
Anche il rapporto con i miei genitori, mio padre in particolare, ne risentì.
Era un uomo semplice. Il giorno in cui egli compì vent’anni era sul fronte di guerra nel deserto del Sahara: al termine della prigionia (con fame, stenti, lavoro duro) era tornato a casa a 26 anni.
I genitori morti, una vita da costruire in una situazione complessivamente difficile qual è stato il dopoguerra nel nostro paese.
Allora queste cose (i suoi sacrifici, il bene che mi voleva, ovviamente secondo la sua sensibilità) io non le consideravo molto e non vedevo in lui la fatica di costruire qualcosa di buono e positivo per me.
Una cosa mi ricordo bene di quegli anni: che rimanemmo alzati insieme - noi due soli - a vedere quella partita in TV.
Gioimmo entrambi al risultato finale: se penso a un momento dolce e tenero nella mia giovinezza insieme a mio padre (che ci ha lasciato da una ventina d’anni) il ricordo va a quella partita.
Abbiamo attraversato la voglia di libertà, la difficoltà di viverla, il bisogno di andare all’attacco con gioia e senza arroganza… e ora siamo un po’soli.
Spero che a mia figlia rimangano - verso suo padre - meno rimpianti di quelli che mi porto dentro io.
Don Leo, grazie di tutto
Non volevo crederci quando ho saputo: Don Leo Commissari è stato assassinato in Brasile, a Sao Bernardo, il paese tanto amato.
In quel momento ho provato una grande angoscia e una enorme tristezza, pari solo a quella che sperimentai quando un medico mi disse - dall’oggi al domani - “Tuo padre non può farcela, la sua vita non potrà essere più lunga di qualche mese…”.
La mente è ritornata agli anni in cui l’ho conosciuto, attorno al 1969: in effetti per me - nel pieno dell’adolescenza in cui è d’obbligo contestare tutto e tutti, in primo luogo l’amore e l’affetto dei propri genitori - Don Leo è stato come un padre.
Erano anni difficili, nel pieno della contestazione giovanile: l’Arciprete di Barbiano, Don Marino, lo chiamò, con un gesto di grande lungimiranza, per fargli incontrare un gruppo di ragazzi, a cui la fede domenicale non bastava più.
Don Leo ci volle bene, con quella serenità che proveniva dalla sua persona, pacata ma attenta ad ognuno: con ciascuno di noi ebbe pazienza, attenzione, affetto; ci mostrò come Dio ci amasse, così come eravamo e come la fede fosse una cosa “grande”, per la quale coinvolgersi col cuore, non solo con il rispetto di alcune regole formali.
Sono certo che se non mi fosse stata data l’opportunità di conoscerlo e seguirlo in quegli anni cruciali - sia a livello personale coi miei 16/17 anni, sia a livello sociale per quello che rappresentò la fiammata della contestazione, soprattutto negli anni seguenti del “tutto è politica” - oggi la mia vita, con ogni probabilità, sarebbe diversa.
Un altro sacerdote - in anni seguenti - è stato altrettanto determinante nella mia esistenza, Don Beppe Tagariello: il mio cuore è pieno di ringraziamento anche per lui.
Poi Don Leo andò in Brasile, a Itapetinga: quante lettere ci scrivemmo in quegli anni, e ogni volta era un piacere leggerle, perché nelle sue parole c’era sempre anche il suo cuore.
Il tempo è passato, il legame per forza di cose si è affievolito, con Don Leo e con il mondo che rappresentava, ma quando tornava in Italia cercavo sempre di rivederlo.
L’ultima volta è stato qualche mese prima della sua scomparsa, quando la domenica precedente il suo rientro in Brasile dopo una breve vacanza, ha celebrato la Messa a Lugo. Al termine sono andato a ringraziarlo ancora una volta per il modo semplice e generoso di donarsi agli altri, anche nel celebrare i sacramenti: ci siamo lasciati con la promessa che, al successivo ritorno in Italia, sarebbe venuto a casa nostra.
Questo pranzo non ci sarà: nel mio cuore, però, non mancherà il profumo della tua dolcezza e della tua serenità.
Grazie Don Leo: Dio ti benedica.
“Free Opera”, il calcio per la libertà
“Sfide” è uno di quei pochi programmi per i quali valga la pena tenere la televisione accesa. Si parla di sport, ma forse sarebbe meglio dire che si racconta la voglia di vivere, di soffrire, di avere emozioni.
La puntata era dedicata alla “Free Opera”, squadra di calcio composta solo da persone attualmente recluse nell’omonimo carcere milanese.
Sono iscritti al campionato di terza categoria e giocano sempre in casa, nel campo tra le mura della prigione: quello che per tante squadre sarebbe un vantaggio innegabile per loro è un obbligo insormontabile.
Confesso che la delicatezza con cui la trasmissione ha affrontato un compito così arduo mi ha colpito ed entusiasmato.
Ho visto i ragazzi della squadra (“nome e cognome – fine pena anno ….” recitavano i titoli in basso, mentre parlavano) parlare del valore del gruppo, dell’impegno per vincere le partite, della voglia di dare il massimo per l’obiettivo comune, ma anche delle loro vite bruciate, della fatica e del dolore che viene da lontano, da una famiglia che non ti ha saputo o, forse, potuto crescere con le attenzioni e l’affetto che abbiamo avuto tanti di noi.
Molte volte sono passato in tangenziale a Milano davanti al carcere di Opera: mi ha fatto sorridere uno di loro che ha raccontato dell’ingorgo di macchine che osserva spesso dalla sua finestra, di quanto pagherebbe per poter ancora sbuffare e arrabbiarsi dentro quelle auto!
E ancora, il capitano della squadra, condannato all’ergastolo, leader nello spogliatoio e così tenero verso le sue bambine che lo vanno a trovare.
Ho visto degli uomini veri, così presi dalla loro voglia di vivere la partita di calcio come fosse il momento più importante della loro vita, dall’affermazione dei valori grandi che portano nel cuore.
Poi ho ripensato ai programmi televisivi che affollano le nostre giornate: ma quando ci saranno ancora “normalmente” trasmissioni che ci mostrano la vita, così come è, senza stereotipi, senza tanti compromessi?
Ben vengano, allora, coloro che riescono ancora a far domande che guardano al cuore e a confrontarsi coraggiosamente con le risposte: solo così un paese può svilupparsi e le persone possono camminare.
Quella terra di musica e dolore
Una sera d’estate di qualche anno fa, a Faenza, in una delle più belle piazze d’Italia, ho partecipato al concerto di Goran Bregovic e della sua “Orchestra per matrimoni e funerali”.
Un’esperienza fantastica, da augurare a tutti coloro che hanno voglia di buona musica e grandi emozioni.
Intanto, le premesse: Goran Bregovic è nato a Sarajevo, in Bosnia, madre serba, padre croato, moglie musulmana: la sua musica è intrecciata con la storia e il sangue che è scorso nei Balcani. Un luogo e una musica da sempre vagabonda ed errante, crocevia tra Oriente ed Occidente, in eterno conflitto tra commedia e tragedia (un particolare: lui veste rigorosamente di bianco e le sue canzoni sono coloratissime…).
La sua musica è lo specchio della sua terra, di quel grande crogiuolo di razze, fatta di diaspore, lacrime, persecuzioni, guerre ricorrenti e incomprensibili.
Ecco: per apprezzare la sua musica dolce, coinvolgente, piena di colori e sfumature, occorre ricordare anche che il suo paese è pieno del sangue e dell’odio tra fratelli, tra coloro che fino al giorno prima avevano vissuto e lavorato assieme.
Il concerto era di sera, all’aperto: la volta celeste bellissima e le stelle che brillavano di una luce soffusa, lenta ma che ti arrivava in fondo all’anima; il ricordo è subito volato allo stesso nostro cielo, dove nella primavera del 1999 udivamo, nel cuore della notte nella nostra terra di Romagna, il rombo degli aerei che andavano a bombardare la Serbia e il Kosovo.
Una terra che genera una musica così struggente e un dolore così profondo.
Una delle ultime canzoni era la sigla della trasmissione televisiva italiana di una decina di anni fa, “Il raggio verde”, condotta dal giornalista Michele Santoro: ho riflettuto che ci vuole un punto di vista per giudicare gli avvenimenti, i comportamenti delle persone, il mondo. Avere un giudizio apre le prospettive. Far finta di non averlo, rende incapaci di vedere quello che ci circonda.
La musica di Bregovic è un po’ come il giornalismo di Santoro: ti scalda il cuore e ti tiene sveglio.
1968 - Siamo realisti…. Chiediamo l’impossibile!
Quarant’anni. Un tempo ragionevole per provare a fare una riflessione oggettiva, anche se gli avvenimenti ci riguardano in prima persona.
Nel 1968 avevo 15 anni. Vivevo (e vivo tuttora) in una piccola città di provincia. Frequentavo le Scuole Superiori: ricordo la ventata di novità che coinvolse tanti di noi. L’assemblea nella scuola al mattino, le riunioni dei comitati di base al pomeriggio, tante discussioni, tanta voglia di guardare e di pensare in grande, con la speranza di poter cambiare il mondo.
Di quegli anni ho tanti ricordi belli: la lettura di “Lettera a una professoressa” di Don Milani, M.L. King che pronuncia il suo memorabile discorso “I have a dream”, gli slogan del maggio francese “Siamo realisti, chiediamo l’impossibile” “Fantasia al potere”.
Poi, dalle ceneri di quella grande voglia di cambiare il mondo sono nate anche le P38, l’omicidio del “nemico”, le B.R.
Ogni tentativo umano, per quanto bello e giusto, porta in sé anche le premesse del suo fallimento: questa - a 60 anni di età - mi sembra ormai una certezza. Ma, senza persone che sappiano sognare qualcosa che va oltre la méta, saremmo ancora nelle caverne.
E qui non è tanto un problema di sinistra, di destra, di comunisti che hanno strumentalizzato le rivolte, di falsi miti.
Ho vissuto quegli anni ed è rimasto nel mio cuore il desiderio di fare cose belle e piene di significato nella mia vita (anche se gli errori che commetto sono sempre un po’ più grandi dei miei sogni…): se guardo i politici di oggi che sparano sentenze sul 1968, li vedo molto arroganti, pieni di sé e preoccupati solo del destino del loro piccolo o grande partito e delle loro - spesso notevoli - ricchezze personali.
Abbiamo sognato, abbiamo sperato in un mondo migliore, molti sono rimasti alla finestra; tutti possiamo ancora vivere imparando dai nostri errori.
Due lauree e un fondoschiena
Qualche tempo fa è apparso sul quotidiano “La Repubblica” un articolo, molto carino, dove una ragazza trentenne rifletteva sulle dinamiche della vita di oggi e di come, agli occhi della gente, il suo “fondoschiena” valesse più delle sue due lauree.
Mi sono divertito molto a leggerlo: una grande ironia e una grande intelligenza facevano capolino dietro ad ogni passaggio.
Sono un quasi sessantenne, penso serenamente nella media dei non particolarmente belli, dei non decisamente “machi”, alle prese con i problemi del lavoro, del vivere, con molta voglia di essere attento alle dinamiche delle relazioni tra le persone.
Si, anche io vedo che gli uomini al primo approccio guardano il fondoschiena di una donna, o magari il seno; francamente anche le donne guardano e catalogano gli uomini su quello che si vede a prima vista e, penso, le più smaliziate su quello che si può intuire senza vederlo.
Spesso ci capita che le relazioni con le altre persone abbiano al fondo andamenti legati alla seduzione, all’accettare l’altro come nostro difensore, allo stare nel giro che ci farà emergere: cioè alla riduzione della nostra personalità in cambio del successo.
Allora l’aspetto esteriore può diventare la modalità che regola i rapporti: io ti proteggo, tu “mi rimbocchi le coperte alla sera”. Ovviamente questo scatena la “guerra” nei rapporti tra le persone, così come li vediamo tutti i giorni.
Io credo che la cosa di cui più abbiamo bisogno (ciascuno di noi: uomini, donne, giovani, maturi, anziani) sia uno sguardo pieno di attenzione sulla nostra vita.
Ciò che ci dà serenità è una dinamica in cui ci sentiamo accolti, in cui ci fa piacere che la persona che ci sta vicino ci aiuti a fare il nostro cammino, così come noi possiamo sostenere il suo, senza preoccuparci se fosse non proprio la Venere di Milo.
Ognuno di noi ha bisogno di un rapporto tra due persone che parta dalla valorizzazione dei punti di forza di entrambi, in cui le qualità vengano prima delle aree di miglioramento.
Anzi, è piacevolmente positivo quando entrambi abbiamo a cuore i pregi dell’altro, ci fa piacere che emergano prima di ogni altra cosa. In questo modo sapremo ancora emozionarci e sentirci vivi.
Credo che persone positive e intelligenti siano il più grande dono che possiamo trovare sulla nostra strada: ci aiutano a sentire di nuovo “voglia di vivere” e non solo “voglia di emergere”.
Questa bella poesia di Erri de Luca mi sembra il commento migliore!
Considero valore
Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si é risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza ricordare di che.
Considero valore sapere in una stanza dov’e’ il nord, qual’é il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto.
Erri De Luca
Il treno degli artisti
Mentre ritornavo a casa pieno di energie dopo un bel periodo di ferie, ma anche depresso perché “lunedì si ritorna in ufficio”, mi è capitato in treno un episodio, che mi ha ridato coraggio e voglia di fare.
Dove ci sono degli artisti veri - cioè pieni di cuore e passione – ci sarà sempre un soffio di vita.
Stazione ferroviaria, arriva col solito ritardo uno sbuffante Intercity. Si sale e c’è qualche problema, come sempre ce ne sono per chi viaggia in treno: è strapieno di vacanzieri e di valigie. Passo a fianco di una giovane punk seduta sui gradini della porta d’accesso e mi sistemo.
Poi si parte, fino a che non arriva una signora, età verso la pensione, tutta pimpante vestita a festa, con al fianco, una terribile valigia, coordinata al vestito, tutto in fucsia, con uno straordinario cappellino: vedendo la ressa nel corridoio decide di fermarsi e di stare nell’area prima dell’ingresso nei vagoni del treno. Rinuncia e sta lì insieme alla giovane punk.
Passano pochi secondi e sento che le due si parlano, grazie alla signora, in prima battuta, sicuramente simpatica. Sembra una di quelle donne degli anni „50 educate e tutte a modo, oramai scomparse, vestite a festa di tutto punto come se andassero ad un battesimo. Ma poi dopo un po’sento che il discorso prosegue tra le due, che parevano di due mondi così distanti, e vira verso la pittura e l’arte in genere. Incredibile, tutt’e due dipingono e si stanno facendo una bella chiacchierata.
Ed ecco che entra in quel momento un controllore. Un signore sulla mezza età, potrebbe essere il padre della giovane e il nipote della signora. Tre generazioni insieme in un metro quadro circa di ossigeno.
“Biglietti, signori, biglietti”. “Ah, io non ce l’ho il biglietto!” fa la giovane punk e snocciola tutta una serie di scuse incredibili che però non fa in tempo a finire perché interviene la signora e dice rivolta al controllore “Non si preoccupi, pago io il biglietto della ragazza”.
Mi ha colpito, alzo la testa e gli occhi e seguo con ancora più interesse.
“Ma no signora lasci stare”, interviene la giovane, che prima le aveva addirittura chiesto se voleva sedersi sui gradini a terra al suo posto ricevendo un gentile rifiuto. Ma la donna è irremovibile, vuole pagare lei, probabilmente perché l’affinità per la pittura e la disponibilità al dialogo della giovane l’ha colpita.
Ma ecco il colpo di scena. Il controllore le guarda, mentre era già pronto alla mega-multa, ed esclama “Va bene, allora facciamo così: io faccio il biglietto normale, la ragazza mi dice dove va, lei paga ma senza multa, un prezzo normale! Saranno dieci euro, così”
“Ma grazie” gioiscono le due in coro e tutta contenta la signora si appresta a pagare ed apre il portafoglio, il controllore fa il biglietto e la giovane ringrazia tutti.
“Sa, stavamo parlando di pittura!” si giustifica la signora. “Ma perché, vi interessate di pittura?” interrompe subito il controllore e sgrana gli occhi e incalza subito “Anche io mi occupo di pittura, sono un grande paesaggista”, butta lì l’uomo nella sua severa divisa verde.
È un colpo di fulmine. La signora tira fuori il suo depliant con i suoi quadri della mostra che va ad inaugurare, la giovane punk prova ad approfondire il figurativo contemporaneo e racconta che sta andando a una serata culturale e il ferroviere sorride rivelando di come è gratificante dipingere bei paesaggi nei fine settimana, fuori dal lavoro.
I tre proseguono, tre generazioni con ruoli diversi, uniformi differenti, che si sarebbero potute guardare in cagnesco in un’Italia incattivita come questa, trovano invece un punto in comune nell’amore per l’arte e per il paese, dismettendo ruoli e divise, dialogando sulla bellezza dell’arte in Italia. Mentre quasi tutto decade e troppo va in declino, un incrocio fra tre persone reali del nostro paese - dei quali mai si parlerà da nessuna parte - ci racconta la bellezza e la forza dell’Italia.
Quell’incontro così semplice, in una società esasperata come quella di oggi, merita di essere raccontato. Fa del bene a tutti come l’ha fatto a me.
Oggi è lunedì, il lavoro ricomincia, con un sorriso.
A trenta secondi dall’infinito
Ho visto la puntata di “Sfide” dedicata agli Europei di calcio del 2000 - quando perdemmo la finale a trenta secondi dal novantesimo - e devo dire che mi è piaciuta in maniera incredibile.
Il gruppo più unito e forte che abbia avuto la nazionale italiana dai tempi di Enzo Bearzot, non a caso friulano come Dino Zoff, l’allenatore dell’Italia di quei campionati continentali: persone concrete, dalla grande attenzione alla necessità dell’amicizia tra i loro “ragazzi”, dalle poche parole, senza concessioni allo star system.
Quegli uomini così veri, non a caso emarginati dal mondo del pallone di oggi che spalma le partite, le coscienze e gli animi.
Che belle le interviste a Di Biagio, a Toldo (se non fosse un calciatore, dovrebbe fare lo psicologo con quella capacità di leggere le mosse degli avversari), da Albertini a Maldini (che paura per quel rigore, poi sbagliato).
Toldo, l’eroe gentile che si prende anche la scarpata sul naso, oltre alla rete a trenta secondi dall’infinito.
Alex, quei due goal: se almeno un pallone fosse entrato, ci saremmo regalati un sogno, ma raccontato senza rancore, solo con il desiderio di ricordarci le emozioni di quei giorni.
Trezeguet, così dolce a parlarci della mamma cui ha dedicato il tiro finito alle spalle del portiere che risvegliò noi italiani dal sogno. In qualsiasi altra trasmissione sportiva, sarebbe stato presentato come il “nemico”!
E infine, una annotazione: è vero che Zoff fu costretto dalle polemiche a dimettersi, al rientro in Italia. Solo da noi non si può raccontare che fu un politico allora in crisi di visibilità a farlo rinunziare all’incarico sparando una delle sue mitiche battute sulla mancata marcatura di Zidane (assolutamente in ombra per tutta la partita) da parte dei giocatori italiani.
Il nostro eroe scambiato per un pugno di voti.
Presentazione del volume Il Credito Cooperativo ravennate e imolese: dalla “Banchina” alla “Banca dei Soci e del Territorio”
La Fondazione Giovanni Dalle Fabbriche pubblica molto volentieri questo testo del Dr. Filippo Lo Piccolo, frutto del lavoro conseguente all’assegnazione della Borsa di Studio concessa nel 2011, per la partecipazione al Master Universitario in Economia della Cooperazione di Bologna.
Nella ricerca vengono ripercorsi alcuni momenti fondamentali della cooperazione di credito nei nostri territori, unitamente a diversi passaggi sulla costituzione di alcune delle Casse Rurali che poi hanno formato l’odierno Credito Cooperativo ravennate e imolese.
Vi ritroviamo le persone che possiamo considerare i padri dell’odierna cooperazione di credito, come Giovanni Dalle Fabbriche, e le storie che hanno segnato la vita di un paese, come la nascita della Cassa Rurale a Sassoleone, sulle colline imolesi.
Il desiderio è quello di lasciare ai cooperatori di oggi, in particolare ai Soci degli anni duemila della BCC ravennate e imolese, la traccia, il solco del lavoro iniziato agli albori del secolo scorso e consolidato negli anni dal 1960 al 1980, da coloro che li hanno preceduti, in questa continuità tra le generazioni che è tipica della cooperazione.
È la storia dell’impegno e della fatica che tanti uomini hanno dedicato alla costruzione della cooperativa di credito che oggi, come una nuova fiaccola olimpica, passa a coloro che dovranno affrontare le sfide della globalizzazione, della moneta unica, dei mercati mondiali, tenendo salda la rotta della mutualità e della solidarietà.
Editare la pubblicazione per noi, in questo 2012 che è l’Anno Internazionale delle Cooperative proclamato a livello mondiale dalle Nazioni Unite, vuol dire rendere omaggio a quegli uomini, al loro impegno, per avere oggi dei punti di riferimento e proseguire il nostro cammino, per consegnare domani il testimone alle generazioni che verranno dopo di noi, avendolo preservato e arricchito.
(Il volume del Dr. Lo Piccolo è scaricabile gratuitamente in formato e-book dallo store di Homeless Book)
Un violinista in metropolitana
Un uomo si mise a sedere in una stazione della metro a Washington D.C. ed iniziò a suonare il violino; era un freddo mattino di gennaio. Suonò sei pezzi di Bach per circa 45 minuti.
Durante questo tempo, poiché era l’ora di punta, era stato calcolato che migliaia di persone sarebbero passate per la stazione, molte delle quali sulla strada per andare al lavoro.
Passarono 3 minuti ed un uomo di mezza età notò che c’era un musicista che suonava.
Rallentò il passo e si fermò per alcuni secondi e poi si affrettò per non essere in ritardo sulla tabella di marcia.
Alcuni minuti dopo, il violinista ricevette il primo dollaro di mancia: una donna tirò il denaro nella cassettina e senza neanche fermarsi continuò a camminare.
Pochi minuti dopo, qualcuno si appoggiò al muro per ascoltarlo, ma l’uomo guardò l’orologio e ricominciò a camminare.
Quello che prestò maggior attenzione fu un bambino di 3 anni. Sua madre lo tirava, ma il ragazzino si fermò a guardare il violinista. Finalmente la madre lo tirò con decisione ed il bambino continuò a camminare girando la testa tutto il tempo.
Questo comportamento fu ripetuto da diversi altri bambini. Tutti i genitori, senza eccezione, li forzarono a muoversi.
Nei 45 minuti in cui il musicista suonò, solo 6 persone si fermarono e rimasero un momento.
Circa 20 gli diedero dei soldi, ma continuarono a camminare normalmente.
Raccolse 32 dollari.
Quando finì di suonare e tornò il silenzio, nessuno se ne accorse.
Nessuno applaudì, né ci fu alcun riconoscimento.
Nessuno lo sapeva ma il violinista era Joshua Bell, uno dei più grandi musicisti al mondo.
Suonò uno dei pezzi più complessi mai scritti, con un violino del valore di 3,5 milioni di dollari.
Due giorni prima che suonasse nella metro, Joshua Bell fece il tutto esaurito al teatro di Boston e i posti costavano una media di 100 dollari.
L’esecuzione di Joshua Bell in incognito nella stazione della metro fu organizzata dal quotidiano Washington Post come parte di un esperimento sociale sulla percezione, il gusto e le priorità delle persone. La domanda era: “In un ambiente comune ad un’ora inappropriata: percepiamo la bellezza? Ci fermiamo ad apprezzarla? Riconosciamo il talento in un contesto inaspettato?”.
Ecco una domanda su cui riflettere: “Se non abbiamo un momento per fermarci ed ascoltare uno dei migliori musicisti al mondo suonare la miglior musica mai scritta, quante altre cose ci potremmo gustare se aprissimo di più il nostro cuore alla bellezza?”
Il senso della vita
Il paradosso del nostro tempo nella storia è che abbiamo edifici sempre più alti…, ma moralità più basse, autostrade sempre più larghe, ma orizzonti più ristretti.
Spendiamo di più, ma abbiamo meno, comperiamo di più, ma godiamo meno.
Abbiamo case più grandi e famiglie più piccole, più comodità, ma meno tempo.
Abbiamo più istruzione, ma meno buon senso, più conoscenza, ma meno giudizio, più esperti, e ancor più problemi, più medicine, ma meno benessere.
Beviamo troppo, fumiamo troppo, spendiamo senza ritegno, ridiamo troppo poco, guidiamo troppo veloci, ci arrabbiamo troppo, facciamo le ore piccole, ci alziamo stanchi, vediamo troppa TV, e siamo sempre più fragili.
Abbiamo moltiplicato le nostre proprietà, ma ridotto i nostri valori. Parliamo troppo, amiamo troppo poco e odiamo troppo spesso. Abbiamo imparato come guadagnarci da vivere, ma non come vivere.
Abbiamo aggiunto anni alla vita, ma non vita agli anni.
Siamo andati e tornati dalla Luna, ma non riusciamo ad attraversare la strada per incontrare un nuovo vicino di casa.
Abbiamo conquistato lo spazio esterno, ma non lo spazio interno.
Abbiamo creato cose più grandi, ma non migliori.
Abbiamo pulito l’aria, ma inquinato l’anima.
Abbiamo dominato l’atomo, ma non i pregiudizi.
Scriviamo di più, ma impariamo meno.
Pianifichiamo di più, ma realizziamo meno.
Abbiamo imparato a sbrigarci, ma non ad aspettare.
Costruiamo computer più grandi per contenere più informazioni, per produrre più copie che mai, ma comunichiamo sempre meno.
Questi sono i tempi del fast food e della digestione lenta, grandi uomini e piccoli caratteri, ricchi profitti e povere relazioni.
Questi sono i tempi dei viaggi veloci, dei pannolini usa e getta, della moralità a perdere, delle relazioni di una notte, dei corpi sovrappeso e delle pillole che possono farti fare di tutto, dal rallegrarti al calmarti, all’ucciderti.
È un tempo in cui ci sono tante cose in vetrina e niente in magazzino.
Un tempo in cui la tecnologia può farti arrivare questa lettera, e in cui puoi scegliere di condividere queste considerazioni con altri, o di cancellarle.
Ricordati di spendere del tempo con i tuoi cari ora, perché non saranno con te per sempre.
Ricordati di dire una parola gentile a qualcuno che ti guarda dal basso in soggezione, perché quella piccola persona presto crescerà e lascerà il tuo fianco.
Ricordati di dare un caloroso abbraccio alla persona che ti sta a fianco, perché è l’unico tesoro che puoi dare con il cuore e non costa nulla.
Ricordati di dire “vi amo” ai tuoi cari, ma soprattutto pensalo.
Un bacio e un abbraccio possono curare ferite che vengono dal profondo dell’anima.
Ricordati di tenerla tra le mani e godi di questi momenti, perché un giorno quella persona non sarà più lì.
Dedica tempo all’amore, dedica tempo alla conversazione, e dedica tempo per condividere i pensieri
preziosi della tua mente.
E ricorda sempre: la vita non si misura da quanti respiri facciamo, ma dai momenti che ci tolgono il respiro.
C’è sempre spazio per un paio di bicchieri di vino con un amico
Un professore, prima di iniziare la sua lezione di filosofia, pose alcuni oggetti davanti a sé, sulla cattedra. Senza dire nulla, quando la lezione iniziò, prese un grosso barattolo di maionese vuoto e lo riempì con delle palline da golf.
Domandò quindi ai suoi studenti se il barattolo fosse pieno ed essi risposero di si. Allora, il professore rovesciò dentro il barattolo una scatola di sassolini, scuotendolo leggermente. I sassolini occuparono gli spazi fra le palline da golf. Domandò quindi, di nuovo, ai suoi studenti se il barattolo fosse pieno ed essi risposero di si.
Il professore, rovesciò dentro il barattolo una scatola di sabbia. Naturalmente, la sabbia occupò tutti gli spazi liberi. Egli domandò ancora una volta agli studenti se il barattolo fosse pieno ed essi risposero con un si unanime.
Il professore tirò fuori da sotto la cattedra due bicchieri di vino rosso e li rovesciò interamente dentro il barattolo, riempiendo tutto lo spazio fra i granelli di sabbia. Gli studenti risero!
“Ora”, disse il professore quando la risata finì, “vorrei che voi consideraste questo barattolo la vostra vita. Le palline da golf sono le cose importanti; la vostra famiglia, i vostri figli, la vostra salute, i vostri amici e le cose che preferite; cose che se rimanessero dopo che tutto il resto fosse perduto riempirebbero comunque la vostra esistenza.
“I sassolini sono le altre cose che contano, come il vostro lavoro, la vostra casa, l’automobile. La sabbia è tutto il resto, le piccole cose.” “Se metteste nel barattolo per prima la sabbia”, continuò, “non resterebbe spazio per i sassolini e per le palline da golf. Lo stesso accade per la vita. Se usate tutto il vostro tempo e la vostra energia per le piccole cose, non vi potrete mai dedicare alle cose che per voi sono veramente importanti.
“Curatevi delle cose che sono fondamentali per la vostra felicità. Giocate con i vostri figli, tenete sotto controllo la vostra salute. Portate il vostro partner a cena fuori. Giocate altre 18 buche! Fatevi un altro giro sugli sci! C’è sempre tempo per sistemare la casa e per buttare l’immondizia.
Dedicatevi prima di tutto alle palline da golf, le cose che contano sul serio. Definite le vostre priorità, tutto il resto è solo sabbia”.
Una studentessa alzò la mano e chiese che cosa rappresentasse il vino. Il professore sorrise. “Sono contento che tu l’abbia chiesto. Serve solo a dimostrare che, per quanto possa sembrare piena la tua vita, c’è sempre spazio per un paio di bicchieri di vino con un amico”.