Commenti ai film

“Invictus”
di Clint Eastwood
anno 2009

C’è un filo conduttore che unisce questo film con gli altri precedenti di Clint Eastwood. È quello del tema del perdono e della redenzione, questa volta applicato sulla più larga scala di una nazione e del suo popolo diviso, protesi nello sforzo di una riappacificazione dopo decenni di atrocità e di ingiustizie di una parte sull’altra. Artefice di questa operazione è la figura di Nelson Mandela, il presidente nero eletto dal popolo, che consegna nelle sue mani di ex carcerato politico il Sudafrica, Paese lacerato e sull’orlo della guerra civile. Tutti gli sforzi di Mandela saranno mirati ad appianare lo storico conflitto tra la minoranza dei bianchi, classe dominante fino a quel momento, ed i neri sfruttati e discriminati dall’odiosa applicazione dell’apartheid, intuendo che mai come in quel dato momento storico le ragioni della vendetta e della rappresaglia avrebbero potuto rappresentare la peggior medicina per la sua nazione. Allora elabora la strategia della riconciliazione e comprende come lo sport possa fungere da collante indolore per un popolo fino ad allora atrocemente diviso.

La Coppa del mondo di rugby è l’occasione per mettere in atto la sua felice intuizione.

“Invictus” racconta dei mesi che precedettero il torneo svoltosi in Sudafrica nel 1995 e del rapporto instauratosi tra il Presidente Mandela (Morgan Freeman) ed il capitano della squadra Francois Pienaar (Matt Damon) per far diventare l’auspicata vittoria in quella manifestazione, un’occasione di unione per il popolo sudafricano.

Operazione difficilissima quanto coraggiosa, considerando che la squadra di rugby, gli “Springboks” (dal nome di una antilope), erano odiati dalla popolazione di colore che li considerava uno dei simboli del potere oppressivo dei bianchi. Nel procedere della narrazione, il film analizza anche le figure private dei due protagonisti ed in particolare del Presidente Mandela: la profondità della regia di Eastwood riesce a restituirci un ritratto di commovente umanità venato da quell’ombra di amara malinconia così tipica, ed amata, del regista americano.

Aiutato in questo da un mostro sacro come Morgan Freeman il cui ruolo sembra precedere la sua interpretazione, sembra quasi che il personaggio si sia ispirato all’attore e non il contrario. Suo contraltare è un Matt Damon che del rugbista ha sì il cipiglio, forse un po’ meno il fisico. Tutto il film tende ai minuti finali della partita che deciderà chi saranno i campioni del mondo tra il Sudafrica e la Nuova Zelanda. Nell’arrivarci passiamo per momenti di altissima poesia come la visita al carcere dove Mandela fu rinchiuso lunghi anni o le puntate dei giocatori della nazionale sudafricana nelle bidonville, di cui fino ad allora quasi ignoravano l’esistenza. Il tutto per giungere ai “ruggiti” animaleschi delle mischie durante la partita finale che segnerà, è il caso di dirlo, il destino di una nazione.

Film di grande qualità, come Eastwood ci ha ormai abituato da tempo, dove la bellissima colonna sonora stempera le tentazioni celebrative alle quali, in un film del genere, è difficile resistere. La musica originale è del figlio del regista, Kyle, scritta assieme a Michael Stevens.

“L’attimo fuggente”
di Peter Weir
anno 1989

Tradizione, Onore, Disciplina ed Eccellenza sono i quattro pilastri educativi sui quali si fonda sin dal 1859 il collegio della Welton Academy nello stato del Vermont, impressi in altrettanti stendardi posti in evidenza durante la pomposa cerimonia d’apertura dell’anno scolastico, con la quale inizia il film. Il rettore afferma con evidente orgoglio che il 75% degli allievi che escono da quella severissima scuola trovano la strada spianata per accedere alle Università più prestigiose degli Stati Uniti.

Per gli studenti inizia un nuovo semestre e il preside presenta loro un nuovo insegnante di letteratura.

Il prof. Keating (Robin Williams) si rivela subito diverso dagli altri docenti e presto diventerà il “maestro di vita” per un gruppo di ragazzi: li guiderà a vivere al di fuori dei rigidi schemi di un grigio edificio, a tentare, rischiare per poterne essere fieri. Tra lezioni in cortile, calci ad un pallone recitando versi di Whitman, quei ragazzi vivono un’esperienza che rimarrà per tutto il resto della loro esistenza.

Durante le sue lezioni i ragazzi scoprono sé stessi, le loro passioni e aspirazioni, ma devono scontrarsi con la dura realtà delle aspettative familiari e con le regole del liceo.

Dopo il suicidio di uno di loro, quello che per primo ha avuto l’idea di rifondare la “setta dei poeti estinti”, un circolo romantico di cui era membro anche l’insegnante da giovane, il preside, già allarmato dalle lezioni “alternative” di Keating, decide di cacciarlo.

Ma prima che il professore esca definitivamente di scena, i ragazzi che l’hanno seguito e ascoltato, dimostrano di essere ancora con lui e che i suoi insegnamenti resteranno per sempre scolpiti dentro di loro: quel “Oh capitano, mio capitano” recitato in piedi sui banchi, resterà per sempre nel cuore di chi ha amato questo film.

Un’opera che nel suo genere è diventata meritatamente un punto di riferimento e che si avvale, oltre alla grande performance di Robin Williams, di una schiera di giovani interpreti fra i quali un quasi esordiente Ethan Hawke nei panni di Todd, lo studente più timido della classe, che è invece il primo a salire sul suo banco per dimostrare al professor Keating che il pur breve periodo trascorso assieme non è stato vano. L’espressione del professore, stupita ed orgogliosa, anticipa il breve e semplice commiato: „grazie figlioli… grazie!„ che rappresenta una sequenza di grande commozione - ancor di più sottolineata dalle suadenti musiche di Maurice Jarre - ed il più grande successo che un insegnante possa aspirare di ottenere dai propri allievi.

Distese di neve, paesaggi da favola di un incantevole bellezza, tutto così magico, quasi disegnato, e ogni albero, ogni fiore, ogni foglia sembra descrivere quei ragazzi che nel collegio di Welton costruirono la loro vita, e grazie ad un professore originale, un vero “Capitano”, impararono a crescere credendo in loro stessi.

“Momenti di gloria”
di Hugh Hudson
anno 1981

Da dove viene la forza per arrivare alla fine della corsa?

È soltanto la voglia di vincere che spinge una persona a raccogliere tutte le proprie forze, per raggiungere la meta prima dell’altro?

Da dove nasce veramente questa volontà di “riuscire”? Forse è dentro di noi.

Prima di tutto vogliamo dimostrare a noi stessi di essere in grado di superarci: “gareggiare per vincere sugli altri o con se stessi?”.

E chi compete con noi è un avversario da battere o un’opportunità per dare sempre di più e scoprire il nostro reale potenziale?

Cosa fare per esprimere il massimo?

“Momenti di gloria”, ispirato a una storia vera, narra della preparazione atletica e dell’avventura olimpionica di un gruppo di universitari britannici, selezionati per correre alle Olimpiadi di Parigi nel 1924.

Il loro successo porterà prestigio alla Nazione; ma per due corridori in particolare, Harold ed Eric, l’onore in gioco è anche quello personale. Nasce la sfida con l’altro, ma soprattutto con se stesso.

Un film denso di sentimenti dove sono presenti i valori dell’amicizia, dell’amore, del rispetto per l’avversario, della fede e dell’appartenenza.

È bello ascoltare dai protagonisti frasi del tipo “si può glorificare Dio anche sbucciando una patata, basta che la sbucci alla perfezione” oppure “mi piace più dare riconoscimenti che riceverli” ed ancora “non vince il più forte ma il più coraggioso”.

Un pellicola coinvolgente, girata in parte a Cambridge, dove il cameratismo universitario genera un clima di grande affiatamento e positività: da ricordare la scena nella quale Harold, appena arrivato nel college, decide di correre il “Certamen di Caius”, i 188 passi del perimetro del piazzale entro i 12 rintocchi dell’orologio.

Affascinanti le scene delle gare finali sottolineate dalle splendida colonna sonora di Vangelis, premiata con l’Oscar.

Hugh Hudson in questo film trasmette chiaramente la tesi che la voglia di vincere nasce soprattutto da una visione: lasciare qualcosa di noi che venga ricordato in avvenire e quindi vincere oggi per essere protagonisti anche quando non ci saremo più.

Ecco perché la pellicola inizia con Harold che, ormai ottuagenario, ricorda i suoi compagni delle Olimpiadi del ‘24 con la frase: “Siamo qui per onorare la memoria di quei pochi giovani che vissero con la speranza nei cuori e le ali ai piedi”.

Nel 1982 si aggiudicò complessivamente quattro premi Oscar, tra cui quello di Miglior film, unitamente ad altre tre nomination.

“The Reader - A voce alta”
di Stephen Daldry

anno 2008

“The Reader - A voce alta” è ambientato nella Germania dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando l’adolescente Michael Berg (David Cross negli anni giovanili e Ralph Fiennes da adulto), si sente male e viene aiutato ad arrivare a casa da Hanna (Kate Winslet), un’estranea che ha il doppio dei suoi anni.

Michael si riprende dalla scarlattina e cerca Hanna per ringraziarla. Così, i due rapidamente rimangono coinvolti in una relazione segreta e appassionata.

Michael scopre che Hanna ama sentir leggere e il loro rapporto fisico si trasforma in qualcosa di più profondo. Hanna è entusiasta che Michael le legga “L’odissea”, “Le avventure di Huckleberry Finn” e “La signora con il cagnolino”. Nonostante il loro rapporto, un giorno Hanna scompare misteriosamente, lasciando Michael confuso e addolorato.

La rivede qualche anno dopo: lui è uno studente universitario di legge, portato con altri dal suo professore ad assistere a un processo per crimini di guerra nazisti; lei in tribunale è imputata, una kapò di campo di concentramento particolarmente insensibile e brutale. Confessa le proprie colpe senza capirle, tenendo nascosto con cocente vergogna il proprio segreto più insopportabile: non sa leggere né scrivere, è analfabeta. Apprende in carcere, dalle cassette registrate e poi dai libri che Michael prende a mandarle. E alla domanda: “Cos’hai compreso da tutto questo?”, la risposta è: “Ho imparato a leggere”.

“The Reader - A voce alta” è una storia coinvolgente sulla verità e la riconciliazione, così come sul modo in cui una generazione viene a patti con i crimini di un’altra.

Kate Winslet è assolutamente meravigliosa nel film, diretto da Stephen Daldry, tratto dal romanzo semiautobiografico di Bernhard Schlink “A voce alta” e sceneggiato da David Hare.

A proposito del suo ruolo scabroso, l’attrice ha dichiarato: “Il mio lavoro è quello di portare sullo schermo Hanna Schmitz, d’interpretare qualunque ruolo, ovvero di capire fino in fondo il personaggio ed arrivare ad amarlo. Ed è quello che ho fatto con Hanna. L’ho amata e l’ho capita fino in fondo. Ma questo non vuol dire che simpatizzo per le guardie naziste. È una storia sul pentimento e su come non si sceglie mai chi si ama”.

Nel cast troviamo altri due bravissimi attori: Bruno Ganz, professore universitario e Lena Olin, sopravvissuta al campo di concentramento che Michael incontra ai giorni nostri.

Il finale del film riconcilierà, a modo loro, ciascuno dei protagonisti con la sua vita e la sua storia, perché il passato è un luogo profondo della nostra anima.

Kate Winslet si è aggiudicata nel 2009 il Golden Globe come migliore attrice in un film drammatico e il Premio Oscar come miglior attrice protagonista. Agli Oscar il film ha ricevuto anche quattro nomination: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale, miglior fotografia.

La Rosa Bianca - Sophie Scholl
di Marc Rothemund
anno 2005

Il film narra, in maniera aderente alla realtà dei fatti accaduti in Germania nel 1943, la cattura, la breve prigionia, il processo e la condanna alla pena capitale subìti da Sophie Scholl e da suo fratello, oltre che da un loro amico, tre giovani accusati di cospirazione contro il regime di Adolf Hitler perché facenti parte del gruppo clandestino di opposizione denominato Rosa Bianca.

L’ottima sceneggiatura, elaborata sulla base degli atti processuali e ricamata sulle riflessioni che ne conseguono, prende avvio direttamente dalla scena dell’arresto di Sophie (Julia Jentsch) e Hans Scholl (Fabian Hinrichs), la cui tensione interna, davvero notevole, è rafforzata dall’utilizzo di temi musicali adeguati alla drammaticità della situazione. I due fratelli vengono fermati mentre stanno tentando di distribuire volantini all’interno dell’Università di Monaco. “La Rosa Bianca - Sophie Scholl” diventa così il lungo, spossante resoconto di quei giorni di prigionia, con il confronto sempre più serrato tra gli inquisitori del Reich e la ragazza, la cui forza di volontà lascia di stucco, generando una commozione crescente. Sin dall’inizio la sua inquietudine si confonde con la nostra nel vederla relegata al ruolo di preda, una preda braccata da aguzzini in uniforme che con metodicità grigia e teutonica si adoperano per strapparle una confessione che condanni lei e il movimento. Insieme al coraggio, ammirevole è la scaltra determinazione con cui Sophie Scholl controbatte le accuse, tentando inizialmente di salvare se stessa e dopo, vistasi perduta, di scagionare almeno i suoi complici. Non le sarà possibile, ma dal momento in cui il loro destino è segnato la nostra eroina non rinuncia mai a sostenere, di fronte agli stessi amministratori della macchina di morte nazista, tutte le ragioni di chi vuole educare alla tolleranza, al rispetto della diversità, alla libertà di pensiero, persino quando il mondo intorno sembra precipitare nel caos: mentre tutto affonda non rimane che aggrapparsi all’esempio offerto da pochi. Tra quei pochi Sophie Scholl, una ragazza di ventidue anni, coerente fino alla fine, ed il suo volto ha nella circostanza lo sguardo intenso e ispirato di una bravissima Julia Jentsch, nella sua minuta figura, attorniata da un cast di attori ugualmente validi, posti in ruoli a loro congeniali.

Da sottolineare il pregevole lavoro del regista Marc Rothemund che ha imposto una forma sobria e all’occorrenza solenne ad un film che scuote le coscienze: egli parla al contempo degli oppositori e dell’assenza di opposizione al regime hitleriano.

Il dato storico che emerge - più dei tre ragazzi che sacrificano la propria vita in nome d’una libertà soppressa - è il silenzio del resto della popolazione tedesca che ha guardato dall’altra parte, anziché fermare questo grande crimine della storia. Questa difficoltà nel porsi di fronte agli avvenimenti con la coscienza della propria colpevolezza (come popolo, quindi come persone), si rispecchia nelle scelte del film: Sophie Scholl über alles, l’eroina che si scaglia contro la dittatura nazionalsocialista appare allo spettatore in tutta la sua abbagliante grandezza. Una regia asettica per buona parte del film si scalda in rare occasioni, per mostrare con partecipazione il pianto trattenuto di Sophie, le sue preghiere disperate, l’orgoglio dei suoi genitori. A suo padre e sua madre che l’incontrano per pochi minuti prima della condanna a morte, eseguita con la ghigliottina, Sophie lascia questo testamento: “Non preoccupatevi per me, rifarei esattamente ciò che ho fatto”.

Il film è stato premiato a Berlino 2005 con l’Orso d’argento e ha ricevuto la nomination all’Oscar per il miglior film straniero nel 2006.

Il Gladiatore”
di Ridley Scott

anno 2000

Il generale romano Maximus (Russell Crowe) ha condotto ancora una volta i suoi legionari alla vittoria sul campo di battaglia e ora spera di poter ritornare dalla sua famiglia. L’imperatore Marco Aurelio (Richard Harris), ormai morente, gli chiede però un’altra “impresa”: assumere il comando dell’impero al suo posto. Geloso di questo speciale trattamento l’erede al trono Commodo (Joaquin Phoenix) comanda l’uccisione del generale e della sua famiglia.

Sfuggito miracolosamente alla morte, Maximus viene ridotto in schiavitù a allenato come gladiatore per i combattimenti nell’arena. La sua fama intanto cresce e con essa anche il desiderio di vendetta per la morte dei familiari causata da Commodo; il gladiatore ha ormai imparato che il popolo ha un potere superiore a quello dell’imperatore e sa benissimo che l’unico modo per attuare la sua vendetta è diventare il più grande campione dell’impero.

Vincitore dell’Oscar come Miglior film e diretto da un grande come Ridley Scott (“Alien”, “Blade runner”, “Thelma & Louise”, “Robin Hood”), “Il gladiatore” riporta sullo schermo l’epoca dell’antica Roma che tanta fortuna ha avuto nei tempi passati. Per convincere il regista i produttori hanno avuto vita facile: è bastato mostrargli una copia del dipinto “Pollice verso” dell’artista Jean Leon Gerome che raffigura un gladiatore rivolto al suo imperatore che con un semplice gesto gli intima di uccidere il suo avversario, che la fantasia di Scott si è subito infiammata, nonostante la popolarità di questo genere di film non fosse ancora stata verificata negli spettatori dei nostri giorni. Le scene ovviamente più accattivanti sono quelle dei combattimenti nell’arena che hanno richiesto un enorme dispendio di energie fisiche e mentali, visto che sui corpo a corpo ogni attore ha dovuto fare particolare attenzione per non farsi veramente male con le armi o con le tigri, che per quanto ammaestrate sono comunque pericolosi felini. Il risultato è un lavoro di quasi un anno sviluppato da quattro troupe differenti: una a Londra, una in Marocco, una a Malta e una di base costretta a spostarsi di luogo in luogo. Le ricostruzioni sono state fatte con dovizia di particolari, a partire dalle armi utilizzate in battaglia, per chiudere con l’abbigliamento dei legionari, dei gladiatori e di tutti gli altri personaggi del film.

Non potendolo girare nel vero Colosseo, gli autori hanno pensato di ricostruirlo almeno in parte visto che i tempi di lavorazione cominciavano ad allungarsi troppo; per completare il tutto il computer è ormai il miglior amico dell’uomo e così sono state ricostruite le parti mancanti, aumentati gli spettatori presenti e realizzati scorci dell’antica Roma.

Nel 2001 si è aggiudicato complessivamente cinque Premi Oscar, tra cui quello di Miglior film e di Miglior attore protagonista a Russell Crowe, unitamente ad altre sette nomination.

Il grande sogno”
di Michele Placido

anno 2008

Di nuovo a Roma in quella che, quarant’anni prima, fu la sua università, Andrea, ora scrittore, ritorna con la memoria a quei tempi remoti, imbattendosi per caso in una vecchia foto che lo ritrae assieme alla sorella Laura. Il suo personale „68 rivive attraverso le figure di Nicola, ragazzo pugliese che desidera diventare attore e nel frattempo, per mantenersi, si è arruolato nella polizia (Riccardo Scamarcio); Laura, studentessa di fisica, nata borghese e di formazione cattolica, decisa a battersi per un mondo migliore (Jasmine Trinca); Libero, studente operaio e leader del movimento, che sogna la rivoluzione (Luca Argentero).

Infiltrato all’Università, dove serpeggiano i primi sintomi di malessere sociale, Nicola diviene amico degli altri due giovani, concependo pure un forte sentimento per Laura: ma ancor più egli matura politicamente, finendo per abbandonare le forze dell’ordine e ritrovarsi, da studente, ad affrontare i suoi ex-colleghi celerini…

Da segnalare Laura Morante, bravissima in un piccolo cameo, nella parte di Maddalena, un’insegnante.

Il film inizia e si conclude in California, a Los Angeles ed è stato girato tra il Salento e Roma.

Ottavo lungometraggio diretto da Michele Placido, pure coautore della sceneggiatura, “Il grande sogno” rielabora i ricordi personali del regista, che proprio in divisa si trovò a partecipare alla battaglia di Valle Giulia: venuto a Roma al fine di frequentare l’Accademia d’arte drammatica, infatti, fu nella polizia per due anni, giusto a cavallo del fatidico „68.

Di quegli anni “formidabili”, direbbe Mario Capanna, il regista pugliese rievoca con abilità il clima, la temperie: e ci sono pagine particolarmente gustose a dar conferma di ciò, basti il riferimento al cinema Nuovo Olimpia di Roma, saletta situata in centro, abituale rifugio in quei giorni per i manifestanti, quando la temperatura dei cortei si faceva elevata.

Il film parla di due sogni, ed è un film che, più che parlare di Storia, parla di un avvenimento nella Storia. Il “grande sogno” è quello dei giovani sessantottini, che con la loro rabbia ed energia volevano cambiare il mondo; ma c’è poi il sogno del singolo, in questo caso di Nicola, che aspira ad entrare nell’amato mondo del cinema, che per ora ha potuto solo vedere da semplice spettatore.

Alla fine della visione del film mi sono commosso: nel 1968 avevo 15 anni. Frequentavo le Scuole Superiori: ricordo la ventata di novità che coinvolse tanti di noi. L’assemblea nella scuola al mattino, le domande scomode ai professori e al mondo dei grandi, le riunioni al pomeriggio, tante discussioni, tanta voglia di guardare e di pensare in grande, con la speranza di poter cambiare il mondo.

Poi sono nate anche le P38 e le Brigate Rosse: ogni tentativo umano, per quanto pieno di passione, porta in sé anche le premesse del suo fallimento.

Il film di Placido mi ha fatto ricordare l’entusiasmo che avevamo, le cose belle che sognavamo allora, per il mondo e per noi.

“Crazy Heart”
di Scott Cooper

anno 2009

Bad Blake (Jeff Bridges) ne ha passate tante, troppe. Cantante country, un tempo discretamente famoso, è ormai costretto ad esibirsi per pochi spiccioli in locali di quarta serie. Se non lo uccideranno l’alcol e le sigarette, saranno i debiti a portarlo alla fine. Eppure potrebbe migliorare le cose se accettasse di aprire i concerti di un suo pupillo, giovane musicista a cui Blake ha insegnato tutto, ma che a differenza di lui è stato capace di diventare ricco. Ma, a 57 anni, Bad Blake è anche un uomo cocciuto e orgoglioso, e non sembra intenzionato a sottrarsi alla spirale di autodistruzione che lo avvinghia. Un giorno però incontra Jean (Maggie Gyllenhaal), una giornalista single madre di un bambino, e tutto cambia. Se è tardi per ricostruire una credibilità sentimentale, non lo è per cogliere l’ultima occasione artistica, per comporre un’ultima bellissima canzone.

Il film del debuttante Scott Cooper ha molte cose in comune con la musica country, sempre uguale a se stessa, eppure sempre nuova a seconda dell’interprete. Allo stesso modo, la trama di Crazy Heart è uguale a tanti altri film (viene in mente The Wrestler, per fare un solo esempio), e racconta la storia di un uomo sull’orlo del baratro, a cui il destino concede un’ultima possibilità di redenzione. La differenza, anche in questo caso, la fanno gli interpreti, e cioè un Jeff Bridges davvero straordinario e vincitore dell’Oscar.

Senza strafare, lavorando per sottrazione, l’attore riesce a non cadere nei facili stereotipi che il personaggio dell’artista maledetto porta con sé. Il suo Bad Blake è un personaggio complesso, umanissimo, che agli abissi dell’autodistruzione sa alternare sprazzi di grande tenerezza e commozione. Un personaggio autentico nell’accezione migliore del termine. E il bravissimo Bridges ha l’altro merito, di non poco conto, di creare col resto del cast, su tutti l’incantevole Maggie Gyllenhaal, una sinergia capace di rendere la storia protagonista più che il singolo, evitando di trasformarla in un “one man show”.

Un film che riesce a coinvolgere emotivamente, proprio come una bella canzone: una storia di caduta e rinascita, al ritmo della musica country.

Del resto, lo dice anche Bad Blake, mentre cerca comprensione nello sguardo sofferto di Jean: “È impossibile pensare alla propria carriera senza fare i conti con la propria storia; non c’è altro modo di essere onesti con la propria arte, se non in quello di immergerla, sporcarla nelle proprie emozioni, nei propri fallimenti, nell’accettazione di cosa significa pagare il prezzo del proprio talento.”

Tutti possiamo guardare con affetto a quello che dice la canzone portante del film a proposito della vita: “Non è un posto per un cuore affaticato, non è un posto dove perdere la testa, non è un posto per crollare, raccogli il tuo cuore folle e fai un altro tentativo”.

Due Premi Oscar nel 2010, “Miglior attore protagonista” a Jeff Bridges e “Miglior canzone originale”, andato al brano “The Weary Kind” di Ryan Bingham, mentre Maggie Gyllenhaal è stata candidata per “Migliore attrice non protagonista”.

“Gran Torino”
di Clint Eastwood
anno 2009

Clint Eastwood, 78 anni, interpreta e dirige il suo primo film sulla vecchiaia, bellissimo e desolato: il titolo ‘Gran Torino’ è il nome d’un modello di auto conservato, dopo cinquant’anni di lavoro in fabbrica, nel garage della sua casa alla periferia di Detroit.

È un vecchio scostante, soprattutto dopo la morte della moglie. Non riesce a sopportare il mondo che lo circonda né i suoi abitanti. I vicini di casa asiatici li chiama “musi gialli”, come faceva durante la guerra di Corea dove ha combattuto ed è stato decorato.

Devastante il vuoto etico della sua famiglia: di figli, nuore e nipoti.

Gli fa orrore la nipote adolescente con la pancia nuda e i piercing, neanche gli piacciono i suoi figli corpulenti e pigri. Non desidera parlare con nessuno. Non vuole vedere nessuno. Chiude la porta in faccia al parroco cattolico che vuole convincerlo alla confessione. Disprezza le case del vicinato, degradate, scrostate, trascurate: al confronto, la sua casa è tenuta come una reggia. Sta solo, con la cagna bianca Daisy. È malato, sputa sangue. Mangia male. Fa senza amore i lavori domestici: è abituato alla fatica manuale, ma non gli va. Parla all’interlocutore come se abbaiasse. Non ha nostalgie né rimpianti: ma gli grava sul cuore il rimorso di un’infamia compiuta in guerra.

Il suo stato d’animo, l’umore, cambiano quando si lega a un sedicenne asiatico, perseguitato da una banda giovanile guidata da un cugino, e alla sorella adolescente di lui violentata dai suoi stessi compagni. Le gang (ce ne sono di nere, di messicane) sono emblemi del mondo presente.

L’amicizia con i due ragazzi “musi gialli” è una ragione per vivere, ma anche per morire.

Eastwood è magnifico nel personaggio: la sua sicurezza evoca il tempo dell’ispettore Callaghan, il resto del film il suo atteggiamento contemporaneo, i due elementi mescolati creano una figura composita toccante, un impasto di rimorso e violenza. I paraurti cromati della Gran Torino si modellano su lineamenti minacciosi e muscolosi così come sul volto di Walt appaiono ringhi di disprezzo per questo mondo che cambia in peggio. La faccia rugosa, il corpo esile, il modo atletico di muoversi esprimono al meglio la fine d’un uomo forte di integrità e di coraggio.

Grandissimo film, una storia semplice fatta di uomini veri, di amicizia, di valori antichi, di tutto quello che nella vita come al cinema sta scomparendo, lasciandoci un grande vuoto nel cuore.

Il film ha vinto diversi premi in molte importanti rassegne cinematografiche, in tutto il mondo: Golden Globe, New York Film Critics Circle Award, Awards of the Japanese Academy, David di Donatello, Premio César.

“Hereafter”
di Clint Eastwood
anno 2010

Il rapporto con la morte è al cuore di ogni arte. Lo è di sicuro in quella di Eastwood, fin dai tempi in cui s’aggirava come pistolero fra i cimiteri del Far West, in quella straordinaria parabola su vita e morte che era il cinema di Sergio Leone. A ottant’anni, ma ancora nel pieno della giovinezza artistica, Clint Eastwood ha deciso di affrontare la domanda in maniera diretta e sconvolgente: esiste qualcosa oltre la morte?

È la storia di tre persone toccate in maniera differente dalla morte, che convergono soltanto nel finale. A San Francisco vive George (Matt Damon), un uomo che ha il dono terribile di parlare con i morti. A Parigi lavora Marie (Cècile de France), giornalista televisiva giovane, bella e famosa, che vive un’esperienza fra la vita e la morte durante il devastante tsunami in Indonesia. A Londra cerca di crescere Marcus, un dodicenne con la madre tossica e un fratellino gemello morto in un incidente stradale.

Il film comincia con la scena dello tsunami. Una delle più terrorizzanti con cui si sia mai aperto un film dai tempi del “Soldato Ryan” di Spielberg. La morte arriva come un’onda anomala e travolge ogni cosa, valore, esistenza. Trascina anche lo spettatore, dai primi minuti, in una dimensione diversa, rovesciata. È lo stesso rovesciamento che subiscono i tre protagonisti dai destini spezzati. George è un fenomeno paranormale, ricco e famoso, ma la compagnia della morte lo spinge alla disperazione e alla fine preferisce il ritorno a una vita normale, da operaio in fabbrica, piuttosto che la dolorosa fama, nonostante le pressioni di un fratello manager. Marie è una star immersa nella scalata al successo, in procinto di dare alle stampe una scandalosa biografia del presidente Mitterrand, ma dopo la tragedia dello tsunami la cronaca, la politica, la storia perdono ai suoi occhi ogni interesse. Marcus è un bambino timido e taciturno che volta le spalle a una vita difficile. L’unica sua relazione col mondo, il gemello Jason, è persa per sempre e lui la insegue nell’aldilà.

Con un materiale simile, qualsiasi regista e sceneggiatore finirebbero inghiottiti in una terra di nessuno fra il bizzarro e il sentimentale. Eastwood e Peter Morgan, che aveva già dato prova di talento in film completamente diversi come “Frost-Nixon” e “The Queen”, invece ci offrono un film di rara bellezza. La forza delle immagini e dei dialoghi, il tocco magico nel filmare le città, la recitazione memorabile dei protagonisti, compresi i piccoli gemelli, e di alcuni comprimari, a cominciare da Bryce Dallas Howard (figlia d’arte, suo padre è il regista Ron Howard) nella parte di Melanie, fuggevole possibilità per George di una vita normale.

Ma “Hereafter”, è il caso di dirlo, va molto aldilà di un bel film. Grazie allo sguardo del regista, che ci meraviglia ad ogni tocco: carico di pietas sulla vita delle cosiddette persone normali, infinitamente più affascinanti degli uomini che fanno la cronaca e la storia.

È un racconto sulla morte dal quale si esce paradossalmente allegri, pieni di vita: la pellicola si chiude con una delle scene d’amore più sensuali - eppure assolutamente casta - mai viste al cinema, aggiunta dallo stesso Eastwood al copione originale di Morgan.

Il film, in un certo senso, è la prova evidente e inconfutabile che gli uomini, nonostante l’inesorabile morte delle cellule, possono continuare a crescere, maturare in profondità e creatività fino agli ottant’anni suonati e oltre: questa magnifica prova vivente si chiama Clint Eastwood.

I segreti di Brokeback Mountain”
di Ang Lee

anno 2005

Quando Joe Aguirre, un dispotico e scontroso proprietario terriero, affida a Ennis Del Mar (Heath Ledger) e Jack Twist (Jake Gyllenhaal) il compito di condurre in altura e sorvegliare un gregge di pecore per la stagione estiva in una valle ai piedi della Brokeback Mountain, i due non sospettano minimamente che le loro giovani esistenze siano destinate a mutare per sempre. Quella semplice occasione di lavoro, che accettano spinti dal mero bisogno, segnerà in modo decisivo il corso della loro vita.

Rudezza, diffidenza, sfida, conoscenza, apertura all’Altro, dialogo e tacita intesa: le tappe obbligate dell’amicizia virile, un luogo comune così spesso raccontato dalla letteratura e dal cinema, vengono tratteggiate con pochi esemplari momenti di convivenza, lavoro, riposo, sottolineati da un montaggio dinamico e immagini di una natura dominante e selvaggia, metafora di forze antiche e ingovernabili, presenti anche all’interno di menti e cuori, e pronte a manifestarsi in tutta la loro concretezza.

Oltrepassare un “punto di non ritorno” è un’esperienza dura e riservata a pochi, anche perché gravida di conseguenze che non è agevole sostenere. Ma si tratta di un’esperienza che quasi sempre assume in sé l’idea della “necessità”, ha i tratti definitivi e assoluti di ciò che è inevitabile, spazzando via ogni contingenza e il concetto di scelta ad essa connesso.

La passione tra Ennis e Jack è di quelle che non conoscono scelta: travolgente e totale, si alimenta dell’attrazione fisica e della passione reciproca ma trascende ampiamente entrambe, per porsi su un piano non soltanto esistenziale, andando a toccare l’essenza stessa delle due personalità e le affinità caratteriali e affettive che ne discendono.

In questa totale compenetrazione e simbiosi tra anime naturalmente “gemelle” sta il nocciolo duro e il significato più autentico della vicenda, il vettore di intensità che guida e orienta azioni e stati d’animo e alla luce del quale ogni interpretazione assume la sua validità e la sua ragion d’essere.

La parte centrale del film segue in parallelo le vicende dei due personaggi e la loro progressiva “caduta”: il matrimonio, la nascita dei figli, il tentativo impossibile di costruire un’esistenza socialmente accettabile, in apparenza “normale”, in realtà sempre più fonte di sofferenza e alienazione.

Solo nello sporadico incontro, reso difficoltoso dalla distanza fisica che li separa e dalle pastoie di una quotidianità percepita come squallida e deprimente finzione, Jack ed Ennis ritrovano se stessi e recuperano, sia pure per qualche breve istante, lo spirito e le sensazioni vitali, proprie dei tempi di Brokeback Mountain, che assurge sempre più al ruolo di vera e propria “arcadia perduta”, terra semi-mitologica, vagheggiata e sognata con l’intensità e la ferocia con cui si ricorda la sola vera felicità di una vita.

In fondo Brokeback Mountain è una grande storia d’amore, raccontata al massimo della sua passione e del suo realismo, una relazione sofferta e tormentata, che nemmeno la morte può far cessare.

La forza maggiore del film, al di là della maestria nelle immagini e dell’intrinseca qualità della sceneggiatura centrata su due caratteri convincenti e ben equilibrati, è spiegata splendidamente da Ang Lee, quando racconta delle ragioni che lo hanno spinto alla sua realizzazione: “Perché Brokeback Mountain? Perché credo che ognuno abbia una Brokeback Mountain nel cuore. È il luogo segreto cui vogliamo far ritorno o il traguardo che continuiamo a cercare senza risultato. È l’illusione per eccellenza, ma anche la ragione di vita per definizione: il sogno di una connessione totale e onesta con un’altra persona”.

Tre Premi Oscar nel 2006, tra cui quello di “Miglior film” e cinque nomination, oltre a molti altri premi in diverse rassegne cinematografiche.

Il curioso caso di Benjamin Button”
di David Fincher

anno 2008

È strano il destino di Benjamin Button (Brad Pitt), la sua vita procede al contrario. Nasce vecchio e i genitori lo abbandonano sulla porta di un ospizio. Con gli anni ringiovanisce, e per un breve ma intenso periodo, trova l’amore e la felicità a fianco di Daisy (Cate Blanchett), la donna della sua vita.

“Se io potessi vivere nuovamente la mia vita, nella prossima cercherei di commettere più errori, non cercherei di essere tanto perfetto.” Così inizia “Se io potessi”, una delle più belle poesie di Jorge Luis Borges, ed è questo il concetto al centro de “Il caso curioso di Benjamin Button”, e cioè la vita. Un tema semplice, ma anche piuttosto complesso. Si potrebbe dire che ogni film parli di vita, e di certo non si sbaglierebbe: ogni storia di una persona è certamente il percorso di uno, ma anche, al contempo l’unione di tanti eventi, emozioni, ragionamenti, di tanti che avranno provato, magari non esattamente uguali, ma simili, le stesse situazioni. Qui però il discorso è alla radice: la storia di Benjamin Button, inventata da Francis Scott Fitzgerald in un racconto del 1922, è emblema delle esistenze di tutti, perché di queste si preoccupa di prenderne l’aspetto cruciale: l’approccio alla vita. Potrebbe essere un uomo segnato, per la sua diversità, a rimanere ai margini, a nascondersi dall’occhio altrui, ma al contrario vive tranquillamente il suo essere differente, conscio che niente gli verrà precluso, né l’amore, né l’amicizia, né l’avventura. Non si impegna a superare limiti o a abbattere ostacoli, che siano la diffidenza o le problematiche reali - salvo nel finale, quando si “allontana” - che il suo ringiovanimento porta di volta in volta, perché vive in pace con sé stesso. Non ci sono barriere se non le si vuole vedere. Benjamin Button diventa così forza motrice delle sfide che le persone incontrate nel suo percorso avevano preferito abbandonare, una sorta di angelo che non ha bisogno di parole per illuminare gli altri, ma a cui basta esserci per dimostrare da dove nasca la felicità. In questo senso è perfetta la scelta di Brad Pitt come protagonista nel ruolo di Benjamin Button: molto bravo, ma anche dotato della giusta bellezza, necessaria per la forza del personaggio.

David Fincher, reduce dallo splendido e inquietante Zodiac, e successivamente autore di The social network, qui segue quasi senza volersi far notare la sceneggiatura magistralmente scritta da Eric Roth, ma il suo è uno straordinario occhio “invisibile”. La crescita di un amore fatto di affinità elettive, come quello tra Benjamin e Daisy è costruito con abili giochi di luce, con inquadrature tanto intime, quanto mai invasive o ambigue. L’incedere, ora lento, ora veloce, dello scorrere del tempo diventa il cuore pulsante di tutta l’opera. Non è solo lo straordinario trucco sul viso di Brad Pitt, per il quale è stato utilizzato un innovativo sistema di motion capture, ma tutto il film trasuda la volontà di ragionare sul rapporto tra cinema e cronologia. La fotografia seppiata che rende polverosi i ricordi è una scelta fatta in tal senso: un cinema che ancora è, un cinema fatto di immagini curate, di emozioni suggerite e voglia di scavare dentro ognuno di noi.

Cate Blanchett, nel ruolo di Daisy, è bravissima e affascina per il carisma, la classe e la passione nel vivere una storia d’amore così profonda e allo stesso tempo così fuori dai canoni normali.

Tre Premi Oscar nel 2009 (su 13 nomination): miglior scenografia, miglior trucco, migliori effetti speciali.

La 25a ora”
di Spike Lee

anno 2002

In una New York post 11 settembre, che ha sostituito le Twin Towers con due fasci di luci azzurrognole, Monty Brogan (uno straordinario Edward Norton) trascorre l’ultima giornata prima di entrare in carcere, dove dovrà rimanere ben sette anni. È infatti un pusher bianco, di quelli insospettabili, quelli che spacciano negli ambienti bene, guidano automobili costose, hanno accanto donne mozzafiato e amici con uno strano accento… forse russo. Monty è un bel ragazzo, simpatico, educato, un po’scanzonato ma molto “umano”. Solo per fare un esempio, salva dall’agonia un cane, che diventerà il suo più fedele amico in un mondo (il nostro) in cui è sempre meglio guardarsi le spalle.

Mancano ventiquattrore all’alba e Monty ha molte cose da fare: salutare gli amici, prendere congedo dalla sua donna, avere un chiarimento con il padre, regolare i conti con la mafia russa, trovare un nuovo padrone al cane, dire addio alla sua casa e alla sua città, New York, con cui intrattiene un rapporto di odio-amore ma a cui difficilmente sarebbe in grado di rinunciare. Di contorno le storie degli altri, altrettanto “amorali” o comunque “inerti”: un broker che specula sull’aumento della disoccupazione, un professore che sogna di abusare dell’allieva minorenne, Naturelle (Rosario Dawson), la sua donna, che accetta regali costosi facendo finta di ignorare da dove provengano i soldi.

Spike Lee, regista “nero” per eccellenza, ci offre un’interpretazione della società “bianca” contemporanea eticamente desolante. Non c’è pentimento, non c’è redenzione, non c’è via d’uscita: l’unico valore è la sopravvivenza. E il business. Monty è un uomo “normale” che fa un lavoro “normale” ma che, sfortunatamente, incappa nelle maglie della giustizia quasi fosse un evasore fiscale, beccato in flagrante.

La sua percezione della Grande Mela e dell’Occidente tutto, rimanda alla visuale dall’alto di Ground Zero: macerie, macerie, macerie e ancora non si è finito di scavare.

Ma il film di Spike Lee, nonostante la gravità dei temi affrontati, scorre leggero, lasciando il rammarico nello spettatore che sia già finito. L’ottimo montaggio, la recitazione esemplare degli attori, la capacità di gestire le storie parallele, l’approfondimento dei caratteri, il commento musicale, la fotografia… tutto, insomma, concorre alla piacevolezza della visione. Un bel film che, volutamente, smorza i toni drammatici perché non raffigura un eroe che affronta un destino avverso, bensì un antieroe che è costretto solo in ultimo a guardarsi allo specchio.

In un certo senso, Spike Lee ci testimonia che esiste il dolore, esiste la fatica, esiste la propria sconfitta; diventare grandi significa sapersi guardare con coraggio allo specchio e poter dire: “Si, ho sbagliato. Oggi, però posso ricominciare, accettando i miei errori e pagando per essi!”.