La democrazia è per il bene di tutte le persone
Comincerò prima di tutto dagli antenati: è giusto infatti e insieme doveroso che in tale circostanza a loro sia tributato l’onore del ricordo.
Questo paese, che essi sempre abitarono, libero lo trasmisero ai discendenti che li seguirono fino al nostro tempo, e fu merito del loro valore.
Noi abbiamo una forma di governo che non guarda con invidia le costituzioni dei vicini, e non solo non imitiamo altri, ma anzi siamo noi stessi di esempio a qualcuno.
Quanto al nome, essa è chiamata democrazia, poiché è amministrata non già per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta: di fronte alle leggi, però, tutti, nelle controversie, godono di uguale trattamento; e secondo la considerazione di cui uno gode, poiché in qualche campo si distingue, non tanto per il suo partito, quanto per il suo merito, viene preferito nelle cariche pubbliche; né, d’altra parte, la povertà, se uno è in grado di fare qualche cosa di utile alla città, gli è di impedimento per l’oscura sua posizione sociale.
Come in piena libertà viviamo nella vita pubblica, così in quel vicendevole sorvegliarsi che si verifica nelle azioni di ogni giorno non ci sentiamo urtati se uno si comporta a suo gradimento, né gli infliggiamo con il nostro corruccio una molestia che, se non è un castigo vero e proprio, è pur sempre qualche cosa di poco gradito.
Noi che serenamente trattiamo i nostri affari privati, quando si tratta degli interessi pubblici abbiamo un’incredibile paura di scendere nell’illegalità: siamo obbedienti a quanti si succedono al governo, ossequienti alle leggi, e tra esse in modo speciale a quelle che sono a tutela di chi subisce ingiustizia e a quelle che, pur non trovandosi scritte in alcuna tavola, portano per universale consenso il disonore a chi non le rispetta.
Pericle (495 - 429 a. C.)
Politico greco
Guerra del Peloponneso, commemorazione dei caduti ateniesi - 430 a.C.
È nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze
Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose.
La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi.
La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura.
È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie.
Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere ‘superato’.
Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni.
La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza.
L’ inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita.
Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. È nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze.
Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla.”
Albert Einstein (1879 - 1955)
“Il mondo come io lo vedo” - 1931
Non abbiamo niente di cui aver paura, salvo la paura stessa
Questo è un giorno di solennità nazionale, e sono certo che in questo giorno i miei connazionali si aspettano che, nell’assumere la presidenza, mi rivolga a loro con la franchezza e la fermezza che l’attuale situazione del nostro popolo esige. Questo è decisamente il tempo di dire la verità, tutta la verità con franchezza e coraggio.
Né abbiamo bisogno di evitare di affrontare onestamente le condizioni del nostro paese, oggi. Questa grande nazione resisterà come ha resistito, risorgerà e prospererà. Quindi, innanzitutto, desidero affermare la mia sicura convinzione che non abbiamo niente di cui aver paura, salvo la paura stessa, la paura anonima, irrazionale, ingiustificata che paralizza gli sforzi necessari per trasformare il regresso in progresso.
In ogni ora oscura della nostra vita nazionale, una leadership franca e vigorosa si è incontrata con la comprensione e il supporto del popolo stesso, che è essenziale per la vittoria. Sono convinto che darete ancora quel supporto alla leadership, in questi giorni critici.
Con questo spirito, per quanto è nella mia e nella vostra parte, affrontiamo le nostre difficoltà comuni. Queste riguardano, grazie a Dio, soltanto aspetti materiali. I titoli sono precipitati a livelli irrisori; si è verificato un incremento delle tasse; il nostro potere d’acquisto è caduto; ogni ramo dell’amministrazione è minacciato da una seria riduzione delle entrate; le foglie secche delle imprese industriali si accumulano ovunque attorno a noi; i contadini non trovano mercato per ciò che producono; i risparmi di molti anni in molte migliaia di famiglie sono scomparsi.
Solo un pazzo ottimista può negare le lugubri realtà di questo momento. Tuttavia i nostri problemi non provengono da alcun fallimento sostanziale. Non siamo perseguitati dalla piaga delle cavallette. In confronto ai pericoli che i nostri progenitori superarono perché avevano fede e non avevano paura, abbiamo ancora molto da essere grati.
Franklin D. Roosevelt (1882 - 1945)
32° Presidente degli Stati Uniti d’America
Discorso di insediamento, Washington - 4 marzo 1933
Per una pace nella fraterna collaborazione dei popoli liberi
Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e sopratutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione. Non corro io il rischio di apparire come uno spirito angusto e perturbatore, che si fa portavoce di egoismi nazionali e di interessi unilaterali? Signori, è vero: ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire.
Ebbene, permettete che vi dica con la franchezza che un alto senso di responsabilità impone in quest’ora storica a ciascuno di noi, questo trattato è, nei confronti dell’Italia, estremamente duro; ma se esso tuttavia fosse almeno uno strumento ricostruttivo di cooperazione internazionale, il sacrificio nostro avrebbe un compenso: l’Italia che entrasse, sia pure vestita del saio del penitente, nell’ONU, sotto il patrocinio dei Quattro, tutti d’accordo nel proposito di bandire nelle relazioni internazionali l’uso della forza (come proclama l’art. 2 dello Statuto di San Francisco) in base al «principio della sovrana uguaglianza di tutti i Membri», come è detto allo stesso articolo, tutti impegnati a garantirsi vicendevolmente «l’integrità territoriale e l’indipendenza politica», tutto ciò potrebbe essere uno spettacolo non senza speranza e conforto. L’Italia avrebbe subito delle sanzioni per il suo passato fascista, ma, messa una pietra tombale sul passato, tutti si ritroverebbero eguali nello spirito della nuova collaborazione internazionale.
Alcide De Gasperi (1881 - 1954)
Presidente del Consiglio Italiano
Assemblea Generale della Conferenza della pace, Parigi - 10 agosto 1946
Chiedete cosa possiamo fare, insieme, per la libertà dell’uomo, piuttosto che domandare cosa il vostro paese possa fare per voi
Nelle vostre mani, miei concittadini, più che nelle mie, sarà posto il successo finale o il fallimento della nostra opera. Da quando questo paese è stato fondato, ogni generazione di americani è stata chiamata a dare testimonianza della propria lealtà nazionale. Le tombe di giovani americani che risposero alla chiamata in servizio sono sparse per il mondo.
Ora la campana ci convoca ancora una volta, non una chiamata a portare armi, anche se ne abbiamo bisogno, non una chiamata in battaglia, sebbene siamo già in battaglia, ma una chiamata a portare il peso di una lunga e oscura lotta, “rallegrandoci nella speranza, pazienti nella prova”, una lotta contro i comuni nemici dell’uomo: la tirannia, la povertà, le malattie e la stessa guerra.
Possiamo creare contro questi nemici una grande alleanza globale, Nord e Sud, Est ed Ovest, che assicuri una vita più fruttuosa a tutta l’umanità? Vi unirete a questo sforzo storico? Nella lunga storia del mondo, solo a poche generazioni è stato garantito il ruolo di difendere la libertà nell’ora del massimo pericolo. Non mi sottraggo a questa responsabilità, anzi, le do il benvenuto. Non credo che nessuno di noi cambierebbe il suo posto con ogni altro popolo o con un’altra generazione. L’energia, la fede, la dedizione che porteremo in questo sforzo illuminerà il nostro paese e chi lo serve, e la luce di questo fuoco può davvero illuminare il mondo.
E così, miei concittadini americani, non chiedete cosa il vostro paese può fare per voi: chiedete cosa voi potete fare per il vostro paese.
Miei cittadini del mondo, non chiedete cosa l’America può fare per voi, ma cosa possiamo fare, insieme, per la libertà dell’uomo.
Infine, che siate cittadini americani o cittadini del mondo, chiedete a noi, qui, la stessa elevata qualità di forza e sacrificio che noi chiediamo a voi. Con la coscienza pulita come unico premio, con la storia giudice finale dei nostri atti, andiamo a condurre la terra che amiamo, chiedendole aiuto e benedizione, ma consapevoli che qui sulla Terra il progetto di Dio dev’essere anche il nostro.
John F. Kennedy (1917 - 1963)
35° Presidente degli Stati Uniti d’America
Discorso di insediamento, Washington - 20 gennaio 1961
I have a dream
Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice. Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.
E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno, I have a dream. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.
I have a dream, ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
I have a dream, ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
I have a dream, ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!.
I have a dream, ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli esseri viventi, insieme, la vedranno.
È questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.
Martin Luther King (1929 - 1968)
Pastore battista e politico americano
Marcia per il lavoro e la libertà, Lincoln Memorial, Washington - 28 (23?) agosto 1963
I care
Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia.
Come ha libertà di parola e di stampa.
Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra.
Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.
Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”.
È il motto intraducibile dei giovani americani migliori.
“Me ne importa, mi sta a cuore”.
Don Lorenzo Milani (1923 - 1967)
Sacerdote, educatore e profeta
Da Lettera ai giudici - 1965
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones o del prodotto interno lordo (PIL)
Non troveremo mai un fine per la Nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo (PIL).
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi.
Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.
Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo sentirci orgogliosi di essere americani.
Robert F. Kennedy (1925 - 1968)
Politico, Ministro degli Stati Uniti d’America
Kansas University, Lawrence - 18 marzo 1968
Finché sei vivo, sentiti vivo
Non aspettare di finire l’università, di innamorarti, di trovare lavoro, di sposarti, di avere figli, di vederli sistemati, di perdere quei dieci chili, che arrivi il venerdì sera o la domenica mattina, la primavera, l’estate, l’autunno o l’inverno.
Non c’è momento migliore di questo per essere felice.
La felicità è un percorso, non una destinazione. Lavora come se non avessi bisogno di denaro, ama come se non ti avessero mai ferito e balla, come se non ti vedesse nessuno.
Ricordati che la pelle avvizzisce, i capelli diventano bianchi e i giorni diventano anni.
Ma l’importante non cambia: la tua forza e la tua convinzione non hanno età.
Il tuo spirito è il piumino che tira via qualsiasi ragnatela.
Dietro ogni traguardo c’è una nuova partenza. Dietro ogni risultato c’è un’altra sfida.
Finché sei vivo, sentiti vivo.
Vai avanti, anche quando tutti si aspettano che lasci perdere.
Madre Teresa di Calcutta (1910 - 1997)
Fondatrice della congregazione religiosa delle Missionarie della Carità
Premio Nobel per la Pace nel 1979
Proclamata beata da papa Giovanni Paolo II il 19 ottobre 2003
Il bene comune si rivela più grande della somma dei beni individuali; è un bene che supera, per qualità, la somma dei singoli beni individuali
Su questo aspetto mi preme di attirare la vostra attenzione. Vorrei cioè sottolineare quegli elementi di una struttura umana e sociale come è quella della Cooperativa, che contribuisce al miglior sviluppo e alla più efficace valorizzazione della persona umana. Su tali elementi ha già insistito il mio predecessore Giovanni XXIII nell’enciclica Mater et Magistra (nn. 110-135), ricca di principi che possono illuminare anche le mutate circostanze dei giorni nostri. Le sue osservazioni sull’importanza della solidarietà e della collaborazione per tutti coloro che lavorano nel settore agricolo vanno di pari passo con la sollecitudine per il bene comune, come mezzo per esaltare il valore di una cooperazione che risulti, sì, direttamente vantaggiosa per i soci, ma i cui frutti positivi si riversino anche su tutti i membri della società.
La vostra personale esperienza vi porta certamente a riconoscere che la solidarietà e la collaborazione richiedono il concorde impegno per il raggiungimento di scopi precisi, quali la produttività, lo sviluppo, la garanzia di un adeguato compenso per tutti i soci, il miglioramento della qualità e l’espansione del mercato. Ma voi siete pure in grado di attestare che il conseguimento di quegli obiettivi si volge a beneficio dei singoli soci. Voi sapete quindi che il bene dei singoli membri può essere portato a coincidere con quello di tutti e che il bene comune si rivela più grande della somma dei beni individuali; è un bene che supera, per qualità, la somma dei singoli beni individuali.
È su questo aspetto specifico che desidero soffermarmi in occasione di questo nostro incontro faentino. Vi è infatti il pericolo che i criteri per misurare il successo delle cooperative siano desunti soltanto dai risultati di mercato, siano cioè tratti esclusivamente dai vantaggi materiali che esse offrono ai soci. Ebbene, occorre dire che una prospettiva così riduttiva non può essere armonizzata con la visione cristiana della persona. Essa infatti ne umilia la dimensione spirituale sottovalutandone la creatività e la capacità di apporto originale al complesso reticolo dei rapporti sociali. Occorre assumere i progressi fatti attraverso gli sforzi cooperativi nel contesto di un più elevato livello di valori, nel quale la persona sia riconosciuta e valorizzata in ogni sua dimensione.
È la persona, infatti, la vera misura di ogni iniziativa volta a favorire un cammino di crescita e di progresso.
Giovanni Paolo II (1920 - 2005)
Santo Padre
Ai cooperatori nello stabilimento della «P.A.F.» (Agrintesa), Faenza - 10 maggio 1986
Le Casse Rurali concepiscono il credito come strumento di liberazione e mezzo per ampliare la sfera della dignità dell’uomo
L’apertura di una nuova filiale costituisce sempre un motivo di soddisfazione non solo per l’ampliamento delle capacità operative della Cassa Rurale (oggi Banca di Credito Cooperativo ndr), ma anche, e soprattutto, per il miglior inserimento che la cooperativa di credito consegue nel territorio nel quale opera per corrispondere in modo adeguato alle esigenze della comunità locale. Il momento è di quelli che meglio giustificano un richiamo alle caratteristiche di una Cassa Rurale ed Artigiana che, in quanto cooperativa vive della partecipazione del socio.
Le nostre origini risalgono a oltre un secolo fa, quando l’usura rappresentava un elemento catalizzatore negativo per sopraffare ancora più la gente povera e bisognosa.
Grazie all’opera di pionieri come Raiffeisen, in Germania, Wollemborg e Don Cerruti in Italia, si posero le basi per creare istituzioni, come le Casse Rurali, che facendo leva sull’aiuto reciproco e sulla solidarietà, concepissero il credito come uno strumento di liberazione e con l’associazione di persone inventassero un mezzo per ampliare la sfera della dignità dell’uomo.
Questi principi trovarono la loro consacrazione nella enciclica Rerum Novarum - di cui ricorre in questo 1991 il centenario della promulgazione - e successivamente sono stati ripresi e confermati nella dottrina sociale cristiana.
Con l’inaugurazione di oggi, consentitemelo amici di Ravenna, si realizza un obiettivo, inseguito per lungo tempo. Ricordo un caro amico che ha condiviso con me questa attesa: Benigno Zaccagnini. Spesso quando lo incontravo mi parlava del desiderio di vedere la presenza delle Casse Rurali ed Artigiane nella sua città: questa realizzazione è anche frutto del suo impegno.
Sono fiducioso che sapremo far emergere, anche nei mutati contesti nei quali è chiamata ad esplicarsi la nostra attività, quelle che sono le nostre peculiarità di banche locali, radicate all’interno delle comunità, con servizi a misura d’uomo nei confronti delle famiglie e dei risparmiatori e delle piccole e medie imprese.
Giovanni Dalle Fabbriche (1914 - 1992)
Cooperatore
Inaugurazione filiale della Cassa Rurale ed Artigiana, Ravenna - 13 ottobre 1991
Una vita da mediano
Una vita da mediano
a recuperar palloni
nato senza i piedi buoni
lavorare sui polmoni
una vita da mediano
con dei compiti precisi
a coprire certe zone
a giocare generosi
sempre lì
lì nel mezzo
finché ce n’hai stai lì
una vita da mediano
da chi segna sempre poco
che il pallone
devi darlo a chi
finalizza il gioco
una vita da mediano
che natura
non ti ha dato
ne’ lo spunto della punta
ne’ del dieci che peccato
una vita da mediano
da uno che
si brucia presto
perché quando hai dato troppo
devi andare e fare posto
una vita da mediano
lavorando come Oriali
anni di fatiche e botte
e vinci casomai i mondiali.
Luciano Ligabue (1960)
Cantautore, scrittore, regista e sceneggiatore
Una vita da mediano - 1999
I valori dai quali dipende il nostro successo: duro lavoro e onestà, coraggio e fair play, tolleranza e curiosità, lealtà e patriottismo
Nelle nostre ore più buie a farci andare avanti è la gentilezza di ospitare uno straniero quando si rompono gli argini; l’abnegazione degli operai che preferiscono ridurre le proprie ore di lavoro piuttosto che vedere un amico perdere il posto; sono il coraggio del vigile del fuoco di gettarsi in una scala piena di fumo, ma anche le cure di un genitore verso il figlio, a decidere alla fine dei conti il nostro destino. Le sfide che abbiamo di fronte possono essere inedite. Gli strumenti di cui abbiamo bisogno per affrontarle possono essere nuovi. Ma i valori dai quali dipende il nostro successo - duro lavoro e onestà, coraggio e fair play, tolleranza e curiosità, lealtà e patriottismo - sono cose vecchie. Sono cose vere. Sono la forza tranquilla che passa nella nostra storia. Quello che ci vuole è un ritorno di queste verità.
Quello che ci viene chiesto oggi è una nuova era di responsabilità, il riconoscimento da parte di ogni americano del fatto che abbiamo dei doveri verso noi stessi, la nostra nazione e il mondo, doveri che non accettiamo con fastidio, ma semmai cogliamo con gioia, fermi nella consapevolezza che non esiste nulla di soddisfacente per lo spirito e plasmante per il nostro carattere, che dare tutti noi stessi a un compito difficile. Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza. Questa è la fonte della nostra fiducia: la consapevolezza che Dio ci ha chiamati a tracciare un destino ancora incerto. Questo è il significato della nostra libertà e del nostro credo, ed è per questo che uomini, donne e bambini di ogni razza e fede possono unirsi alle celebrazioni lungo questa magnifica Mall, ed è per questo che un uomo il cui padre meno di sessant’anni fa rischiava di non venire servito al ristorante locale sta oggi qui di fronte a voi pronunciando il voto più sacro. Celebriamo questo giorno con il ricordo, di ciò che siamo e di quanta strada abbiamo fatto.
Barack H. Obama - (1961)
44° presidente degli Stati Uniti d’America
Discorso di insediamento, Washington - 20 gennaio 2009
L’Italia siamo noi, la somma dei comuni, e il danno della politica a livello nazionale è che non conosce i territori e non sa più ascoltare
Gli scampi davano soddisfazione, ora se ne trovano sempre meno. Il tonno è il più difficile perché lotta fino alla fine, mentre la spigola è la più intelligente e furba. Non la trovi mai nelle reti. Ah, e poi c’è l’alice. Quest’anno c’è stata una buonissima annata di alici, tanto da attirare molti pescherecci, addirittura dalla costiera napoletana. Le alici sono intelligenti, hanno deciso di soggiornare qui da noi, dove il mare è pulito. Sulle nostre spiagge fiorisce anche il giglio di mare, che è molto bello e pregiato.
Noi l’avevamo individuato molti anni fa: avevamo chiesto allo Stato una concessione di 1500 metri, dove abbiamo realizzato una riserva naturale. La cosa divertente – si fa per dire – è che noi paghiamo allo Stato un canone di non poche lire per mantenere questa riserva… l’Italia è un paese di matti.
Stamattina sono per mare dalle cinque. Ho preso due aragoste, le porto a mio figlio che ha un ristorante qui in paese. Noi siamo legati al nostro territorio. Abbiamo coscienza del nostro territorio, i cittadini hanno capito che è la nostra prima ricchezza. Basta guardare il nostro porto: lo abbiamo ristrutturato e messo a posto noi. Eppure, alla fine il proprietario è lo Stato. Noi abbiamo fatto mutui per quarant’anni, investiamo e costruiamo per arricchirlo, ci lavorano tanti nostri giovani; e lo Stato cosa fa? Addirittura nell’assegnazione delle banchine, lo Stato preferisce i privati che si arricchiscono e non ci lasciano neanche un euro, mentre il comune, con i soldi che guadagna dalle concessioni, riesce a manutenere questa struttura e perfino a destinare una parte dei guadagni nei servizi per i nostri cittadini.
Abbiamo costruito un caffè letterario nel paese più piccolo. Abbiamo realizzato un lungomare pedonale a Pioppi, dove altrimenti la gente non sapeva nemmeno dove incontrarsi. Stiamo costruendo un centro nautico che gestiranno dei ragazzi disabili.
Ed entro la prossima estate rifaremo tutto il piazzale a fronte del porto. Per avere la concessione della struttura, che ci costa un sacco di soldi, abbiamo dovuto fare causa allo Stato. Cose da pazzi. Noi siamo una delle poche realtà in Italia ad arricchire lo Stato. Lo Stato invece fa profitti e basta.
Posso dirlo? Questa è un’amministrazione di sinistra, ma noi siamo “leghisti”. E speriamo veramente che la Lega sappia risolvere questi problemi: il decentramento, la riforma delle autonomie locali, e riteniamo necessario che gli interessi dei cittadini siano curati dall’ente a loro più vicino, il comune, che riesce ad intercettare i loro bisogni e le loro necessità. L’Italia siamo noi, la somma dei comuni, e il danno della politica a livello nazionale è che non conosce i territori e non sa più ascoltare. Noi non vogliamo niente dallo Stato, ma almeno ci lasci le nostre cose.
Angelo Vassallo (1953 - 2010)
Sindaco del comune di Pollica (Salerno)
Intervento pubblicato da “L’Unità” il 10 settembre 2010, all’indomani dell’agguato in cui è stato ucciso
Siate affamati, siate folli
Sono onorato di essere qui con voi oggi alle vostre lauree in una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. Anzi, per dire la verità, questa è la cosa più vicina a una laurea che mi sia mai capitata. Oggi voglio raccontarvi tre storie della mia vita. Tutto qui, niente di eccezionale: solo tre storie.
La prima storia è sull’unire i puntini. Ho lasciato il Reed College dopo il primo semestre, ma poi ho continuato a frequentare in maniera ufficiosa per altri 18 mesi circa prima di lasciare veramente. Allora, perché ho mollato?
Dopo sei mesi, non riuscivo a vederci nessuna vera opportunità. Non avevo idea di quello che avrei voluto fare della mia vita e non vedevo come il college potesse aiutarmi a capirlo.
Il Reed College all’epoca offriva probabilmente la miglior formazione del Paese relativamente alla calligrafia. Attraverso tutto il campus ogni poster, ogni etichetta, ogni cartello era scritto a mano con calligrafie meravigliose. Dato che avevo mollato i corsi ufficiali, decisi che avrei seguito la classe di calligrafia per imparare a scrivere così.
Fu lì che imparai dei caratteri serif e san serif, della differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, di che cosa rende grande una stampa tipografica del testo. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo tutto per il Mac. È stato il primo computer dotato di una meravigliosa capacità tipografica.
Se non avessi mai lasciato il college e non avessi poi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe probabilmente mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o font spaziati in maniera proporzionale. E dato che Windows ha copiato il Mac, è probabile che non ci sarebbe stato nessun personal computer con quelle capacità.
La mia seconda storia è a proposito dell’amore e della perdita. Sono stato fortunato: ho trovato molto presto che cosa amo fare nella mia vita. Woz e io abbiamo fondato Apple nel garage della casa dei miei genitori quando avevo appena 20 anni. Abbiamo lavorato duramente e in 10 anni Apple è cresciuta da un’azienda con noi due e un garage in una compagnia da due miliardi di dollari con oltre quattromila dipendenti. L’anno prima avevamo appena realizzato la nostra migliore creazione - il Macintosh - e io avevo appena compiuto 30 anni, e in quel momento sono stato licenziato.
Quindi, a 30 anni io ero fuori. Ero stato respinto, ma ero sempre innamorato. E per questo decisi di ricominciare da capo. Non me ne accorsi allora, ma il fatto di essere stato licenziato da Apple era stata la miglior cosa che mi potesse succedere. La pesantezza del successo era stata rimpiazzata dalla leggerezza di essere di nuovo un debuttante, senza più certezze su niente. Mi liberò dagli impedimenti consentendomi di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.
Sono sicuro che niente di tutto questo sarebbe successo se non fossi stato licenziato da Apple. È stata una medicina molto amara, ma ritengo che fosse necessaria per il paziente. Qualche volta la vita ti colpisce come un mattone in testa. Non perdete la fede, però. Sono convinto che l’unica cosa che mi ha trattenuto dal mollare tutto sia stato l’amore per quello che ho fatto.
La mia terza storia è a proposto della morte. Quando avevo 17 anni lessi una citazione che suonava più o meno così: “Se vivrai ogni giorno come se fosse l’ultimo, sicuramente una volta avrai ragione”. Mi colpì molto e da allora, per gli ultimi 33 anni, mi sono guardato ogni mattina allo specchio chiedendomi: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?”. E ogni qualvolta la risposta è “no” per troppi giorni di fila, capisco che c’è qualcosa che deve essere cambiato. Ricordarsi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita. Perché quasi tutte le cose - tutte le aspettative di eternità, tutto l’orgoglio, tutti i timori di essere imbarazzati o di fallire - semplicemente svaniscono di fronte all’idea della morte, lasciando solo quello che c’è di realmente importante. Ricordarsi che dobbiamo morire è il modo migliore che io conosca per evitare di cadere nella trappola di chi pensa che avete qualcosa da perdere. Siete già nudi. E, cosa più importante di tutte, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione. In qualche modo loro sanno che cosa volete realmente diventare. Tutto il resto è secondario.
Quando ero un ragazzo c’era una incredibile rivista che si chiamava The Whole Earth Catalog, praticamente una delle bibbie della mia generazione. È stata una specie di Google in formato cartaceo tascabile, 35 anni prima che ci fosse Google: era idealistica e sconvolgente, traboccante di concetti chiari e fantastiche nozioni. Stewart e il suo gruppo pubblicarono vari numeri di The Whole Earth Catalog e quando arrivarono alla fine del loro percorso, pubblicarono il numero finale. Nell’ultima pagina del numero finale c’era una fotografia di una strada di campagna di prima mattina, il tipo di strada dove potreste trovarvi a fare l’autostop se siete dei tipi abbastanza avventurosi. Sotto la foto c’erano le parole: “Stay Hungry. Stay Foolish.”, siate affamati, siate folli. Io me lo sono sempre augurato per me stesso. E adesso che vi laureate per cominciare una nuova vita, lo auguro a voi.
Stay Hungry. Stay Foolish.
Steve Jobs (1955-2011)
Inventore dei computer Mac, fondatore della Apple
Discorso di auguri ai laureandi, Stanford - 12 giugno 2005